Nel sud Italia, si sa, è facile rintracciare rilevanti testimonianze della presenza araba nell’arte e nell’architettura: si pensi al patrimonio artistico lasciato in eredità in Sicilia (basta farsi un giro per le meraviglie di Palermo come la Cuba o la Zisa) così come a quello linguistico e lessicale o alla toponomastica. Diversi nomi di città (Caltanissetta, Mazara, Marsala, Salemi, Favara), località (Mongibello, Alcantara) e cognomi (Asaro, Zizzo, Badalà, Badalamenti) diffusi in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno sono di chiara derivazione araba. La lingua araba è penetrata nell'italiano tramite la presa in prestito di parole e di termini di uso più o meno comune: si va dal lessico dell’astronomia (nadir, azimut, zenith) a quello della matematica (algoritmo, algebra, cifra, zero), dalla chimica (alcol, elisir, alambicco) al lessico militare, marinaresco e commerciale (ammiraglio, cassero, dogana, magazzino). Per non parlare dei termini colloquiali: a bizzeffe, meschino, fino ad un termine comune come "ragazzo" che sembra provenire dall’arabo “raqqa so”, nome con cui si indicavano i “messaggeri” nel XIII secolo. Numerose sono poi le parole arabe entrate nel lessico comune del dialetto siciliano, spesso correlate al repertorio dei termini dell’irrigazione (gebbia, sachia, margiu) o dei termini agricoli in senso lato (zotta, zaccanu) ma anche altri contesti (giufà, tamarru, sciara, giuggiulena, bagghiu e così via). Fin qui, l’influenza araba e della sua lingua in Italia, in particolar modo in Sicilia.
Un po' meno note invece risultano le vicende della presenza italiana nel Mediterraneo e le vicissitudini e i lasciti culturali oltre che linguistici che hanno segnato nel corso dei secoli l'esodo dei nostri conterranei negli scenari a sud del Mare Nostrum. Se da un lato sappiamo con sufficiente certezza che l’arabo non si è imposto mai come lingua parlata sul suolo Italico (ma più probabilmente come lingua dell’amministrazione e della letteratura, in Sicilia), dall’altro lato invece possiamo constatare come il nostro idioma, l'italiano, è stato spesso utilizzato in quasi tutto il bacino mediterraneo come lingua franca. Come probabilmente direbbe Dante, il suono della lingua del sì ha risuonato un po' ovunque da Algeri a Beirut, da Smirne a Istanbul, da Alessandria d’Egitto a Tunisi, toccando forse il punto più alto a cavallo fra l’Otto e il Novecento.
Per avere un’idea della penetrazione della lingua italiana nel Mediterraneo, basta citare qualche esempio. Nel Settecento, non è un mistero che alcuni trattati politici internazionali in Russia, Turchia o in Prussia venissero redatti nella Lingua italiana. Ad Odessa nell’odierna Ucraina, il nome delle strade, ancora nel 1860, era segnato in due lingue, di cui la seconda era l’italiano. In Egitto, per un periodo prima dell’avvento dei Britannici (fino al 1876) l’italiano era la lingua dell’amministrazione pubblica e venne persino utilizzato nella dicitura delle prime serie di francobolli. Sembra poi che fino agli inizi del secolo scorso non fosse infrequente imbattersi sulle coste del Libano in anziani che parlassero l’italiano con accento spiccatamente veneto. Il nostro idioma inoltre rimase, per un certo periodo, la lingua straniera più diffusa tra i turchi perfino nel XIX secolo, impiegato soprattutto a livello diplomatico e commerciale. Ancora adesso nei caffè di alcuni quartieri di Istanbul, è probabile imbattersi in anziani nativi del luogo che passano con grande facilità dal francese all’italiano, utilizzando spesso espressioni dialettali genovesi, una forma di pidgin che sembra aver mantenuto intatte delle formule linguistiche stereotipate. Per non parlare infine della Tunisia, dove il quartiere portuale de La Goulette, posto fra Tunisi e Cartagine, fino a non molto tempo fa veniva chiamato “la piccola Sicilia” in onore dei suoi fondatori, quasi tutti lavoratori siciliani provenienti dal triangolo Palermo, Trapani e Agrigento che addirittura diedero vita inconsapevolmente a un idioma tutto loro: un mix di arabo-siculo che tuttora è usato come lingua locale.
E poi? cos’è successo poi all'italiano? è quanto meno lecito chiedersi. La risposta, per quanto intuitiva, si porta appresso tutta una serie di motivazioni, storiche, politiche, geopolitiche e culturali. Intanto, cominciamo dalla spiegazione forse più semplice: il ruolo che l’italiano aveva a fatica guadagnato è stato progressivamente eroso dal grande competitor di sempre, culturale, politico, geopolitico oltre che linguistico, si potrebbe dire prosaicamente la nostra "bestia nera": ossia il francese. Specialmente nell’Oriente Mediterraneo. Operazione in seguito completata nel XX secolo, con l’avvento prepotente dell’uso della lingua inglese con cui il ridimensionamento dell’italiano è stato praticamente totale. La competizione linguistica con altri pesi massimi europei quindi, ci ha lasciato ben poche chance di sopravvivenza nel mediterraneo.
Certo, si potrebbe obiettare che ultimamente, grazie anche all’onda lunga (fuor di metafora) della televisione e della radio, sembrano registrarsi deboli revival della lingua italiana, specie sulle coste della Croazia, dove è più frequente la presenza turistica dei nostri connazionali; e poi anche in Albania e sulle coste e le isole della Grecia; e infine nel nord Africa, in corrispondenza delle grandi città come Algeri, Alessandria, Il Cairo e Tunisi, oltre alle ex colonie della Libia dove più forti sono rimasti i legami con la madrepatria. Ma nonostante questo colpo di reni, il ruolo dell'italiano nel Mediterraneo è di fatto ridotto ad un piccolo orpello, ormai lontano dai fasti di un tempo.
Ovviamente, per saperne di più, è sempre con la Storia che bisogna fare i conti. La nostra lingua si è spostata seguendo le orme degli Italiani, le rotte dei loro traffici commerciali (nella migliore delle ipotesi) e quelle dell'emigrazione (nella peggiore). Il fenomeno migratorio degli italiani verso i centri a Sud e a Est del Mediterraneo, pur non di massa come quello per le Americhe a cavallo dell'Otto e Novecento o quello per l'Europa nel secondo dopoguerra, ha rappresentato comunque un fenomeno rilevante, costante nei secoli e ha riguardato diverse classi sociali.
Nell’Ottocento, il “cancelliere di ferro” il prussiano Otto Bismarck, uno degli uomini più potenti del secolo, aveva azzardato una previsione: che all’Italia spettasse di giocare un ruolo importante nel Mediterraneo. Ma nella sua visione, questa tendenza al Mediterraneo dell'Italia avrebbe portato la penisola a scontrarsi prima o poi con la Francia, sua naturale rivale. Purtroppo la previsione di Bismarck si avverò e i disegni italiani volti a giocare un ruolo nel contesto mediterraneo si rivelarono velleitari e, in definitiva, inadeguati: sia a causa della scarsità di mezzi finanziari dei vari governi italiani, sia per i il forte ridimensionamento che l'Italia registrò all’indomani della seconda Guerra Mondiale, sia perché, come affrontato altrove in questo blog, l'Italia non seppe scommettere abbastanza sul proprio mare e sulla proiezione culturale che quel mare gli avrebbe di diritto assegnato.
E qui la questione si sposta dalla Storia alla Politica. L'Italia, se per qualche tempo poté aspirare ad essere annoverata fra le potenze mediterranee, in realtà non lo divenne mai del tutto. E anzi, specialmente nel periodo imperialistico, dovette inghiottire il boccone amaro della definizione che i detrattori gli cucirono addosso: «la più piccola delle grandi potenze".
Cercando ora di sintetizzare con uno sguardo d'insieme le varie ondate di emigrazione italiana nel Mediterraneo, si può constatare intanto la dimensione composita delle sue colonie: si tratta di individui giunti in diverse epoche, spinti da motivazioni ed esigenze molto diverse fra loro. Nelle città più importanti del Medio Oriente (Alessandria, Istanbul, Smirne) da tempo immemorabile resisteva una presenza italiana: per capirci, fin dai tempi delle Repubbliche Marinare. Con l’intensificarsi degli scambi commerciali nell’Ottocento arrivarono poi ingegneri, quadri specializzati, operai, artigiani, impiegati nella costruzione di strade, porti, ferrovie. Anche nel Maghreb si erano registrate antiche presenze italiche, rese possibili dalla vicinanza geografica o causate dalle guerre e da motivi politici (come la mini diaspora degli ebrei livornesi a Tunisi) o più semplicemente dall’esodo di manodopera a bassa specializzazione che i braccianti siciliani offrivano al Protettorato francese di Tunisia, autoproclamatosi nel 1881.
Le statistiche disponibili sono abbastanza lacunose e spesso, se confrontate con quelle francesi, non combaciano. A fino Ottocento, in Turchia, il numero degli italiani si avvicinò verosimilmente alle 30 mila unità, con rilevanti presenze a Istanbul (12-14 mila), Smirne (6-7 mila), Salonicco in Grecia (2-3 mila). In Egitto arrivarono a essere più di 40 mila, localizzati soprattutto ad Alessandria, dove se ne contarono 25 mila, e al Cairo (13 mila). In Algeria nel 1881, la colonia italiana raggiunse le 33 mila unità, composta principalmente da presenze scarsamente qualificate. I mestieri esercitati da questi emigrati erano per lo più umili e faticosi: costruzioni ferroviarie e navali, pesca e manovalanza varia. Anche in Marocco gli italiani oscillavano intorno alle 10 mila unità. Ma la presenza di gran lunga più rilevante si registrò in Tunisia. Qui gli italiani, secondo alcuni dati, arrivarono ai primi del Novecento a superare le 100 mila unità.
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Dal trattato della Goulette in poi (1868) che diede il la ad una sorta di immigrazione ufficiale, fra il nascente Regno d'Italia e la Tunisia (esattamente in quest'ordine), i primi a trasferirsi in diverse località costiere del paese maghrebino, furono gruppi di tunnaroti (specializzati nella pesca dei tonni) e di curallari (capaci di immergersi anche in profondità per raccogliere il pregiatissimo corallo), gli uni e gli altri trapanesi soprattutto. Di lì a poco, fece seguito la massa di “nude braccia” costituita da contadini, operai e piccoli artigiani, prevalentemente dialettofona, analfabeta o scarsamente alfabetizzata, proveniente perlopiù dalle zone interne più svantaggiate della Sicilia. La loro cultura era solamente orale, trasmessa dagli anziani ed era così forte da escludere ogni tipo di contaminazione con gli abitanti locali, almeno all'inizio. Spesso in questa prima fase il siciliano emigrato in Tunisia veniva assorbito dalle campagne, che lo rimandavano all’habitat naturale da cui proveniva oppure veniva impiegato nelle miniere di bauxite. In queste condizioni precarie e spesso inumane, non solo non aveva modo di stabilire contatti con le scuole e i centri di cultura italiani presenti nel territorio, ma spesso non riusciva nemmeno ad intessere dei rapporti sociali con gli abitanti autoctoni.
Col tempo però le cose cambiarono. All’inizio del Novecento la comunità italiana era ormai ben inserita nel contesto sociale del paese: furono parecchi quelli che uscirono dall'anonimato acquisendo proprietà fondiarie e creando le prime aziende siculo-tunisine nel territorio. Le cose migliorano anche dal punto di vista burocratico: i nuovi arrivi dall’Italia erano infatti sostenuti da un sistema creditizio e fondiario in mano a società private che acquisivano grandi appezzamenti terrieri per poi rivenderli ai nuovi immigrati. Furono anni di grande rivalsa economica e sociale per gli italiani di Tunisi. Ma proprio quando quel clima di crescita e fiducia sembrò illudere le masse di aver finalmente trovato dietro l'angolo di casa una nuova America, ecco che arrivò l'ennesima mazzata.
Ca va sans dire... Il calvario ebbe inizio quando una certa propaganda francese (a cavallo delle due guerre mondiali) coniò l’odioso slogan “le peril italien”, additando all'opinione pubblica tunisina la presenza degli immigrati italiani come un pericolo per la coesistenza pacifica, se non per la stabilità politica del paese. I siciliani, in particolar modo, vennero dipinti come violenti, irascibili, imprevedibili e in ultima analisi dei criminali incalliti. Presto, alla grancassa della propaganda, si unì il resto: il commercio, le imprese e la stessa produzione vitivinicola degli italiani furono fortemente ostacolati dall’amministrazione francese attraverso la massiccia introduzione dei prodotti provenienti dall’Algeria. La stessa importazione dello Zibibbo, il vitigno, fu dichiarata fuori legge. Tutto questo accadde sotto gli occhi della popolazione tunisina che, suo malgrado, dovette subire questa rappresentazione negativa del siciliano selvaggio, armato di coltello o pistola, pronto ad uccidere per futili motivi.
Ma perché' accadde tutto ciò ? I motivi furono chiaramente politici e squisitamente geopolitici. Si è calcolato che nel 1938 la presenza di italiani sul suolo tunisino sfiorasse le 200.000 unità. Nonostante la Tunisia fosse un protettorato francese, la presenza italiana era notevolmente superiore a quella francese (secondo le stime ferma a circa 70.000 unità). I rapporti di forza fra le due comunità erano così sbilanciati a favore degli italiani da fare scrivere all'economista francese Paul Leroy Beaulieu: "La Tunisie est une colonie italienne administrée par des fonctionnaires français”. Questa preponderanza dell’elemento italiano su quello francese oltre ad essere un'anomalia, ha finito immancabilmente per avvelenare i rapporti fra i due paesi europei fino poi ad arrivare allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Volendo chiosare brevemente questo passaggio, si noti come molto spesso nella Storia la xenofobia e il razzismo abbiano utilizzato sempre e ovunque lo stesso linguaggio, le stesse immagini distorte e le medesime tecniche di comunicazione e di persuasione. E poco importa se le angherie francesi avessero motivazioni di origine politica: rivolte cioè ad una comunità la cui madrepatria si professava fascista.
Di contro, al giorno d'oggi, fa specie incontrare italiani (e siciliani!), evidentemente dei minus habens, spesso aizzati da forze politiche estremiste, ignari della loro storia che, applicando a priori l'odio sistematico nei confronti dell'immigrato sporco brutto e cattivo, non fanno altro che reiterare la massima che più li qualifica: che la madre degli imbecilli è sempre incinta.
Non mi dilungherò oltre le malefatte dei francesi, basta comunque sapere che già nel 1943, in piena Guerra, tutte le istituzioni italiane in Tunisia furono chiuse. I mezzi usati dalla Francia per liquidare in modo definitivo la question italienne furono radicali: chiusura di ospedali, scuole, associazioni culturali (come la Società Dante Alighieri) e dell’unica libreria italiana presente a Tunisi e il conseguente blocco della stampa italiana. A ciò seguirono azioni di riequilibrio demografico: l’espulsione dei quadri dirigenti e dell’élite intellettuale italiana e la spinta alla naturalizzazione di una parte di italiani che, non avendo scelta, divennero di fatto “francesi”, almeno sulla carta. Dopo tanto clamore, nel dopoguerra era normale conseguenza che la collettività italiana si riducesse a 66 500 unità.
Ma l’incubo per i nostri conterranei che decisero di rimanere sul suolo tunisino non finì lì. Con l'indipendenza della Tunisia dalla Francia nel 1956 tutte le proprietà straniere furono nazionalizzate dal nuovo governo tunisino. E nel 1964 (quando già la presenza italiana si era ridotta a 33 mila unità) le terre così faticosamente acquistate e tramandate da generazioni, di padre in figlio, vennero definitivamente espropriate dalle autorità tunisine. Si trattò dell’atto definitivo di liberazione della Tunisia dalla presenza francese, che colpì indiscriminatamente tutti gli stranieri, compresi gli italiani.
Gli italiani a quel punto, ingannati dal paese che li aveva accolti e che avevano contribuito a costruire, dovettero registrare pure la beffa finale dovuta all’assenza delle autorità Italiane che fece poco, troppo poco, per riaccoglierli nella madrepatria. Oggi gli italiani in Tunisia sono poco più di 5.000: si tratta soprattutto di pensionati o di imprenditori di nuova migrazione. Dell’antica comunità rimangono meno di un migliaio di individui che si ritrovano attorno a Il Corriere di Tunisi, unico giornale (ancora attivo dal 1956, anno della sua fondazione) in lingua italiana presente in tutto il Nord Africa.
In definitiva la presenza degli italiani in Tunisia, nell’ultimo secolo, racconta di una storia cominciata male, malvissuta dalla maggior parte di loro e finita purtroppo anche peggio.
L'urgenza di approfondire questo aspetto così vicino, malinconico e così doloroso della nostra storia mi è arrivata per caso, quando pochi giorni fa su youtube mi sono imbattuto su un video postato tempo fa dal Consolato Tunisino di Sicilia, dall’ingannevole titolo gastronomico: Maccarruni (con sottotitolo: un contributo alla sorellanza siculo tunisina). Spinto dalla curiosità, aiutato anche dal taglio elegante e malinconico dell’accompagnamento musicale, ho così “divorato” i 3 brevi frammenti, non più lunghi di 2 minuti ciascuno, ad introduzione del film-documentario, appunto Maccarruni, diretto dal regista siciliano Massimo Ferrara. Il film parla proprio della Storia della comunità siciliana in Tunisia a partire dalla fine del ‘800 e ha il merito di raccontarla attraverso le interviste dei nipoti o dei pronipoti degli emigranti, avvalendosi di un interessante corredo di preziose fotografie e di vecchi filmati in bianco e nero. Di piu non sono riuscito ad ottenere, almeno sul web. Sono scarne le notizie sul regista (su mymovies si ricordano solo 2 dei suoi film-doc, senza peraltro che venga citato Maccarruni), e, se si esclude una recensione molto ben scritta di Federico Costanza “Maccarruni”: storia di prossimità dei siciliani in Tunisia", a cui rimando per chi voglia approfondire l’argomento, non ho trovato nessun’altra pista che riconducesse al film e al suo autore. Inutile dire che qualora qualcuno ne avesse notizia, mi farebbe piacere poter ricevere informazioni più dettagliate sia sul regista, che sulla sua filmografia e ovviamente sul film che, a questo punto, non vedo l’ora di poter vedere.
E finisco, con la filastrocca, lenta e malinconica (almeno come la storia che racconta) riportata nella breve presentazione, su uno dei frammenti di Maccarruni pubblicati sul web:
Così un giorno il nonno decise di raccontare una favola, i bambini erano seduti in cerchio, ammutoliti, ascoltavano… che al di là del mare c’era la Sicilia, la nostra Terra d’origine. E tutti i bambini si misero a guardare l’orizzonte e la cercavano oltre quel grande mare. Nonno ci andiamo in Sicilia? Sì, ci andremo, una notte e saremo lì… Eravamo in tanti ad ascoltare le favole del nonno. Noi che siamo nati e vissuti e cresciuti in Tunisia, da siciliani
4 dicembre 2020
Silvana Vincente Ottoveggio
08.12.2020 08:30
Grazie per questo scritto, io pure sono una discendente sicula Tunisia sto in Francia, era la cultural che ho avuto per essere nata nel 1953. Si parlava francese, siciliano a casa è italiano al liceo
Barry
08.12.2020 09:58
Grazie davvero, Silvana, per la tua preziosa testimonianza. Sarebbe bello conoscere la storia della tua famiglia. Ottoveggio è un cognome abbastanza presente nel trapanese...grazie ancora