BARRY LYNDON

Riflessioni su attualità, geopolitica, storia e cultura

Americanizziamo la scuola italiana? Didattica e sociologia d’importazione

 

Stupisce un po’ il fatto che con tanto parlare di scuola in questi giorni, una riflessione ad ampio respiro sullo stato della didattica sia quasi assente. Si noti, tra l’altro, come i disastrosi risultati dei test standardizzati – gli INVALSI – riferiti all’anno scolastico 2020/21 siano stati sbrigativamente classificati come effetti deteriori della pandemia di Covid-19.

Ne sono risultati poco approfonditi ragionamenti sull’effetto enfatizzante del lockdown sulle marginalità sociali (tema, comunque, importantissimo) e poco altro. L’idea che, diversamente, tale effetto di accentuazione abbia disvelato anche una condizione di lunga sedimentazione della didattica nella scuola italiana – la sua efficacia, o inefficacia, in termini di “far imparare” – ha avuto poco spazio.

In effetti, è poco noto al di fuori della scuola come, da suppergiù vent’anni, sia in atto un vasto movimento di ristrutturazione pedagogica. Per dirla brevemente, un processo iniziato con le prese di posizione dell’Unione Europea sull’istruzione, in particolare con la fondazione de iure dell’europeissima “Economia della Conoscenza”: orizzonte socio-economico da competizione, attraverso il quale il Parlamento europeo “esorta con urgenza iniziative a livello europeo, nazionale e regionale per porre rimedio alla debole diffusione e promozione dell’innovazione in Europa in rapporto a USA e Giappone”[1].

Senza affondare nei dettagli, lo spostamento di prospettiva ha indotto la scuola italiana a attivarsi per una ampia campagna di aggiornamento, che spesso ha agito di importazione. Dal cielo americano, in particolare, insieme alle prospettive di reimpostazione del sistema – come appunto il metodo dei test standardizzati – sono arrivate tecniche e metodologie. Alcune di queste – la più famosa è forse il learning by doing – laboriosamente e lungamente masticate dagli insegnanti italiani, ma ancora spesso rigettate o, più generale, vissute come tessere di contorno ad un mosaico già ben strutturato e, in particolare nella Secondaria di Secondo grado, poco problematizzabile.

Ora, va sottolineato che questa “distanza” non è priva di ragioni, non fosse altro che queste metodologie sono nate e cresciute da un humus culturale diverso da quella, in particolare, mediterraneo. Sono cioè espressione di un modello culturale, “puritano” in quanto americano, diverso dal nostro per alcuni aspetti di fondo per nulla trascurabili. Il fatto di non aver esplicitato a chi abita la scuola italiana la natura socioculturale di queste importazioni certo non ne ha facilitato l’appropriazione. Learning by doing. Il Common man, poi Self made man, è forse il primo e centrale costrutto psichico della mentalità americana. Su di esso si edificano l’idea di uomo, membro della comunità, e quindi di cittadino, membro dello Stato.

Questo “uomo comune”, profondamente “puritano”, emerge in un certo modo da quel farmer che Jefferson ha elevato cittadino ideale: è colui che agisce nel mondo con rettitudine e rigore morale e che nei propri prodotti e successi (il raccolto, ad esempio) trova il segno della Grazia di Dio. L’agire nel mondo è un modo per incontrare Dio e la sua Grazia. La sua condizione di “produttore” (come era lo stesso Jefferson) lo rende autonomo e perciò libero, svincolato dalla politica – che per un americano è male, perfino raggiro e menzogna – e capace di difendere la propria libertà – che per un americano è sempre bene – .

In fondo, è proprio da questo che può nascere il cinematografico “pugno” (passando dalla Casa nella prateria alle odierne sitcom) che risolve tutti gli inghippi narrativi. L’ “imparare facendo” elaborato da Dewey nasce in questo contesto, nel quale il valore “didattico” del fare dipende e si giustifica nel valore “morale” e “religioso” del fare stesso. Un contesto nel quale la libertà (e quindi “autonomia e responsabilità”, cioè le coordinate imprescindibili della “didattica per Competenze”) è conditio sine qua non per la Democrazia e per il suo “Destino manifesto”.

La cultura cattolica adotta una prospettiva diversa e lontana, in cui il soggetto è il “fedele” che non è mai autonomo dal perimetro ecumenico della Chiesa; perimetro entro il quale l’individuo è tenuto a un doppio movimento, decisamente neoplatonico, che spinge l’agire terreno verso i due opposti del “peccato” e della “salvazione”. L’azione umana nasce ambigua, e perciò, all’opposto del modello protestante, deve continuamente emendarsi e rifuggire il fiele peccaminoso con cui è impastata; condizione troppo incerta, troppo a rischio di cadute nel desiderio, nel potere, nel piacere, perché possa assumere valore pedagogico. Le competenze relazionali.

Nello stesso modo, la vasta enfasi posta su quelle soft skills che riguardano la relazione, il dialogo, il lavoro in team, per la cultura americana si appoggia sul solido, importantissimo, concetto cultural-religioso di Covenant, “alleanza”. In effetti, su questo principio si può dire si organizzi l’intera dinamica statuale della Federazione. Si osservi questo: tra i primi migranti, l’atto di territorializzazione fondamentale corrispondeva alla fondazione di una città, o meglio di una chiesa e di una comunità. Questo processo si presentava sempre nella forma della partecipazione, libera e volontaria, a un “patto” consociativo: esso rappresentava una declinazione storica del patto biblico tra Dio e Abramo, legando ogni cittadino in un vincolo materiale e sacrale che, per estensione, diviene il vincolo morale tra governato e governante. Ogni town di frontiera è nata nella stipula di una serie di contratti che legavano il cuore pubblico della città ai diversi capifamiglia e ai loro diritti territoriali.

Nel 1638, ad esempio, un solenne Covenant tra le towns di Windsor, Hartford e Wethersfield ha, ancor più ampiamente, dato origine al Connecticut. È chiaro che in questo movimento abita la disposizione ad una edificazione federale dello Stato. Ed è chiaro che la dimensione relazionale, del dialogo e dell’accordo, ha nel modello culturale americano un valore fondativo e democratico. Il soggetto, erede del Common man, tende così a concepire la propria partecipazione pubblica quale tassello costruttivo; nel Vecchio Continente la partecipazione è stata invece la conquista moderna di un diritto ad agire sullo Stato, già dato e formato: per questo in Europa la politica può vivere la dimensione positiva dell’euristica. Dimensione che però la rende, dal punto di vista pedagogico, seconda.

Il cittadino che la scuola americana vorrebbe produrre ha buone competenze relazionali poiché è chiamato – e qui è la giustificazione morale all’utilitarismo di cui è impregnata l’America – a contribuire al Covenant, attraverso i propri contratti, le proprie negoziazioni, magari anche attraverso la – molto televisiva – partecipazione alla giurisprudenza in qualità di giurato. In Europa, diversamente, lo studente è indotto a esercitare le stesse competenze per finalità economiche, entro la cornice ambigua dell’ “Economia della Conoscenza”. 

Sebastiano Bertini

Verona, 08 Settembre 2021 

 

[1] Risoluzione del Parlamento europeo sulla comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’innovazione in un’economia fondata sulla conoscenza (COM (2000) 567 ( C5-0740/2000 ( 2000/2336(COS)

Commenti

09.09.2021 14:01

Sandra Silvestri

Ottima riflessione!