BARRY LYNDON

Riflessioni su attualità, geopolitica, storia e cultura

Fuga da Sparta -racconto-

1

 

Sparta 465 ac

Entrò mentre la sala era ancora vuota. In segno di rispetto fece attenzione a non calpestare le orme del padre che lo precedeva di qualche passo, altero nella sua andatura. Due anziani stavano discutendo a bassa voce provando a scaldarsi dal braciere ormai quasi spento. Il padre si unì ai due senza voltarsi. Nikos si sentì solo e imbarazzato. Le mani gli grondavano sudore e provò più volte a strizzare gli occhi, come se avesse difficoltà a mettere a fuoco. La lunga sala in pietra era illuminata dalla fioca luce di una decina di torce. Dalla stanza attigua arrivava il rumore delle stoviglie e il sommesso chiacchiericcio degli schiavi addetti alla cucina.

Tutto intorno alle pareti del salone, pendevano le statue a mezzo busto di marmo degli dei cari agli spartani: Ares, dio della guerra violenta, Artemide, dea della caccia, altezzosa e sinistra nella sua espressione marziale; Eracle progenitore della città ed Atena dea della strategia militare. Nikos ebbe un brivido e provò a lottare con i suoi sentimenti contrastanti. Nessuno avrebbe dovuto indovinare la sua incertezza, disse fra sé. Presto la stanza si sarebbe riempita di una quindicina di commensali e sarebbe stato sconveniente per tutti che gli altri potessero intuire il suo nervosismo. Quello era un giorno speciale, un giorno senza ritorno. Tutto era quasi pronto per il suo primo sissizio, la cena in comune. Da quella sera in poi tutti lo avrebbero considerato uno spartiate.

A poco a poco la stanza cominciò a riempirsi. Vide entrare il capofila Licene, l'eroe di mille battaglie che aveva lasciato sul campo il suo occhio sinistro. Ben piantato sulle gambe e dai larghi bicipiti che teneva scoperti anche in pieno inverno, aveva sempre un’espressione truce dipinta sul volto. A lui si accompagnava Spyridon lo sciancato, suo più fido compare, smilzo e curvo come il fuscello di un giovane albero mai attecchito e scaltro come una faina. Dietro di loro avanzava il gigante Philippos di una testa più alto di tutti che ruminava sempre come una capra un misto di erbe aromatiche che, sosteneva, lo rendevano un imbattibile guerriero.

"Cuoco!" gridò Licene all'indirizzo delle cucine "vediamo di fare presto stasera che ho lasciato il letto caldo!" I due suoi compari sghignazzarono maliziosamente mentre gli altri due tirapiedi si erano radunati accanto a Licene che nel frattempo si era appropriato di uno sgabello e vi si era stravaccato irrispettosamente. Forte del sostegno del suo gregge, Licene si voltò verso la porta "Ma dov'è lo sbarbatello?" chiese allo sciancato che gli reggeva il moccolo. "Non mi dire che se l'è fatta sotto quel moccioso..." Spyridon fece una smorfia e mimò un bambino che piange. "Attalo! Dove diavolo sei?" Gridò spazientito Licene. Nikos ebbe un brivido. Anche per il suo amico Attalo quella era la prima cena in comune. E provò pena per lui: avere un padre come Licene non gli avrebbe di certo facilitato la serata. "Maledetto idiota, dove è andato a cacciarsi?" Philippos il gigante si trovò allora in dovere di uscire pr andare a recuperarlo, mentre Licene, appoggiato i gomiti sul tavolo si prese la testa fra le mani fingendo teatralmente la sua disperazione. Nikos pensò che fosse ubriaco.

Nel frattempo la sala si era quasi riempita e tutti erano concentrati sullo spettacolo impietoso di Licene. "Gliel'ho sempre detto a sua madre" disse con studiata amarezza "quel giovane non mi somiglia per niente. Non può essere mio figlio" E sentendo che tutto intorno si era creato un silenzio imbarazzante, alzò il capo e tarò la sua espressione ebete verso Spyridon. "Ehi smilzo! Prima o poi lo scoprirò se quello lì è figlio tuo!". E giù con una risata fragorosa cui si aggiunse quella di Spyridon e degli altri due scagnozzi.

"Licene!" sopraggiunse ad un tratto una voce proveniente dalla porta. "Ti pare un comportamento consono a questo consesso?" La voce suonò ferma decisa senza increspature. L'uomo che aveva parlato uscì dall'ombra e la torcia illuminò il volto di Gordias, uno dei consiglieri del re. "Con che diritto offendi uno dei nostri figli di Sparta e dileggi la madre che lo ha messo al mondo?" Tutti si girarono adesso verso quell'uomo elegante che si era piantato a gambe aperte a pochi passi dal lungo tavolo sfidando lo sguardo di Licene. Con lo sguardo mite risoluto di chi non conosce la paura. Il guerriero, indispettito ed offeso si alzò di scatto. Ma dalla parte opposta del tavolo, tuonò una voce perentoria. La paura si sparse negli occhi di tutti i presenti.

"Smettetela di litigare come i bambini, spartiati! E' questo l'insegnamento che vogliamo dare ai nostri figli" A parlare era Archiloco, uno degli anziani che si era intrattenuto con il padre di Nikos. La sua voce debole  ma autorevole sembrava sgorgare dal fondo delle viscere. L'anziano membro della gherusia, si guardò attorno lasciando che tutti pendessero adesso dalle sue labbra. "Tu ragazzino, vieni qua" fece segno a Nikos che ebbe un improvviso tuffo al cuore. "Io?" rispose imbarazzato mentre cercava con lo sguardo il padre che annuì saggiamente. "Dove sono i tuoi compagni?" gli disse dolcemente accarezzandogli i capelli.

Non sentendo risposta si rivolse agli astanti: "Cercate i vostri figli! E fateli entrare, questo è un posto di pace! " guardando prima all'indirizzo di Licene e poi di Gordias. Qualche istante dopo la faccia contrariata di Attalo sbucò dalla porta mentre Philippos, come uno zio premuroso, lo convinceva a raggiungere Archiloco. Infine comparve anche Eleutherios, facendosi largo fra la fitta schiera dei compagni di suo padre. Aveva stampato sul suo bel volto nordico un sorriso a metà fra il furbetto e l’insolente. "Bene cari ragazzi, grazie di essere fra noi intanto!" disse Archiloco accarezzandoli ad uno ad uno in viso come chi ha difficoltà con la vista. Poi rivolto all'auditorio "E' per questi ragazzi, il futuro della nostra Sparta, che bisogna mantenere la schiena dritta" tuonò il vecchio con piglio deciso. "E' a loro che dobbiamo dare tutto quello che abbiamo...Ed è per loro che dobbiamo moderare le nostre cattive abitudini".

Il suo sguardo si posò poi su Licene che ora lo stava ascoltando in piedi con gli occhi torvi di un leone in gabbia. "Pensi di riuscirci Licene? Ci possiamo tutti noi fidare di te?" chiese l'eforo Archiloco lasciando che si prendesse tutto il tempo per rispondere. Licene fece un brusco cenno con il capo emettendo un suono quasi animalesco. Subito dopo roteò gli occhi verso i suoi sodali ai quali fece un occhiolino d'intesa. Mettersi pubblicamente contro uno dei vecchi della gherusia non era mai conveniente e gli avrebbe attirato l'astio della comunità. Avrebbe avuto modo e tempo di vendicarsi di tutti loro. Soprattutto di quel bellimbusto di Gordias che continuava a fissarlo con piglio del giudice inflessibile.

"Bene" disse il membro anziano adesso un po' affaticato "diamo inizio alla nostra serata e lasciamoci alle spalle questo piccolo incidente". I commensali presero posto su degli sgabelli di legno posti attorno alla tavola. Nikos cercò lo sguardo del padre che invece lo evito ‘accuratamente. Così roteò gli occhi verso il suo compagno Attalo facendogli segno di sedere vicino. L'anziano Archiloco nonostante la sua vista ormai indebolita lo prevenne. "Naturalmente" riprese a voce alta "faremo in modo che i nostri ospiti graditi, i giovani Attalo Andronikos ed Eleutherios seggano distanti fra loro e possano così integrarsi nei discorsi degli adulti". Messo a tacere Licene, la sala sembrò tornare al normale respiro.

Nikos notò che la comunità era divisa in quattro principali gruppetti. Tutti parlavano adesso fra loro a bassa voce senza mai alzare il tono. E anche il gruppo di Licene sembrava essere stato ridimensionato. Gli schiavi portarono le caraffe di vino che disposero sul tavolo. Poi arrivò la maza il pane d'orzo e subito dopo la pentolaccia fumante del brodo nero fu tirata a forza verso un angolo della sala. Uno strano odore allora si diffuse nell'aria. Nikos aveva sempre sentito parlare di questo brodo nero. Scherzando con i suoi compagni, dicevano che era fatto di carne serpente e sangue di topo. Al solo pensiero ebbe un conato di vomito che cercò di stemperare ingoiando un pezzetto di maza. Notò che anche Attalo, che gli sedeva quasi di fronte era nauseato. I due si scambiarono un veloce sguardo d'intesa ed entrambi rivolsero lo sguardo a Eleutherios che sembrava invece a suo agio. Due schiavi addetti al servizio servirono i piatti fumanti a ciascuno dei commensali.

Durante il pasto si affrontarono diversi discorsi politici. Atene e la sua ipocrita condotta democratica, il nemico persiano che aveva arretrato ma che sembrava già pronto a lanciare un nuovo attacco. "E' indubbio che non possiamo rimanere con le mani on mano in questo momento di pace" rialzò il vocione Licene, non appena fu sicuro che il tema potesse interessare tutti, non distogliendo però gli occhi dal piatto. I suoi annuirono. "Bisogna al più presto organizzare una spedizione verso nord, dobbiamo andare a controllare se i nostri alleati stanno facendo buona guardia" "Non credo che sia necessario mettere pressione in questo momento" gli rispose Gordias con calma serafica, argomentando brevemente che non era quello il periodo per andare a cercare la guerra e che una buona pace era di grande aiuto in quel momento di crisi.

"Dalle notizie che ci giungono dal nostro alleato Tebano, i persiani hanno ormai evacuato il resto dell Tracia e se ne sono tornati oltre l'Ellesponto" "Ah sì? E chi lo dice?" lo schernì Licene "tu sei fra quelli che si fidano ancora dei tebani? Ahaha e' come dire che Atene ha promesso di chiudere il proprio porto" lo guardò con disprezzo in segno di sfida. "Atene sa quando è il momento di chiudere i propri porti" lo rimbrottò Gordias. "E comunque non dimenticare che se non fosse stato per Temistocle e per le triremi degli Ateniesi, per ora avremmo la Grecia completamente invasa da sangue straniero" lo sferzò violentemente mentre diversi commensali annuirono. "Ma cosa ne sai tu della guerra?" saltò d'un tratto sulla sedia Licene come colpito nell'orgoglio "tu non eri alle Termopili! Non riesci ancora a capire che se non fosse stato per noi e solo per noi, per ora saresti costretto a fare lo schiavo di Serse e dei suoi orrendi mezzosangue" "Se solo avessi un briciolo di saggezza, riusciresti a immaginare che i nostri 300 soldati non avrebbero mai potuto fermare un esercito di migliaia di persiani e se il re Leonida, se solo lui adesso fosse qua te lo direbbe lui chi e per grazia di chi riuscì davvero a fermare l'orda persiana" ribatte' Gordias senza scomporsi.

Il sangue salì agli occhi di Licene che si alzò dalla sedia puntando contro Gordias il suo indice. "Sei il solito disfattista! amico degli ateniesi, ti bei di parlare bene dei tuoi compari attici e mai una parola invece per i nostri arditi!" "Fattene una ragione, Licene, la storia non l'hai scritta tu... Non è a te che dobbiamo dire grazie se siamo qui adesso seduti a godere della nostra cena. Ma a Temistocle l'ateniese" "Sei un farabutto e traditore" gridò fuori di se' Licene che diventò rosso paonazzo mentre dal collo taurino gli si potevano contare le vene. Philippos e Spyridon dovettero trattenerlo per il chitone per evitare che Licene saltasse addosso a Gordias. Questa volta fu invece il turno di Heron, il padre di Nikos che si alzò di scatto battendo sul tavolo con stizza i suoi pugni.

"Spartiati vi prego!" tuonò con la giusta fermezza e autorevolezza. "Non vogliamo renderci ridicoli davanti ai nostri figli che stasera per la prima volta siedono con noi?" E nel dire ciò Nikos notò che finalmente il padre lo guardò per un istante che gli sembrò una vita. Per la seconda volta quella sera, Licene fu messo a sedere mentre era ancora in preda agli spasimi nervosi. Gordias invece, con la sua postura da vecchio filosofo, si voltò a raccogliere consensi dei suoi, producendosi in una serie di smorfie di sufficienza verso il rivale, con la spocchia che gli era solita.

2

 

Calmati che furono gli animi, Heron riprese: "Aver fermato i persiani è di certo la cosa che conta. Che siano stati i nostri alle Termopili o che siano state le navi ateniesi, poco importa. L'importante è che siamo liberi".  Il chiacchiericcio si diradò alle parole di Heron che, incassato il plauso, tornò a sedersi in maniera composta. Fu allora, quando tutti ebbero il piatto davanti che l'eforo Archiloco attirò l'attenzione schiarendosi la voce. "Invochiamo tutti gli dei dell'Olimpo, in particolare la nostra beneamata Demetra. Per la causa di Sparta e degli spartani, possano gli dei avere cura e proteggere e sostenere nelle difficoltà questi tre nuovi spartiati, Andronikos, Eleutherios e Attalo. Da questa sera faranno parte attiva della comunità degli spartiati. Con gli obblighi e i doveri che spettano ad ogni buono spartiate. Possano gli dei aiutarli a crescere sani e rispettosi delle nostre ferree leggi." E a fine del piccolo sermone all'unisono tutti i commensali scoppiarono in un urlo fragoroso di guerra. Auh! Auh! Auh! Tre rintocchi violenti mentre levavano alto al cielo i loro pugni chiusi. Andronikos fu colpito dalla breve cerimonia. Provò a cercare lo sguardo di Attalo e vide che anch'egli era confuso. Eleutherios invece era fra i tre il più divertito. Per la prima volta Nikos sentì un sentimento di appartenenza. Sentì che quella era la sua gente e che tutto quello che era lo doveva a quelle persone a quel modo di vivere e di essere. Provò a cercare questi sentimenti negli occhi di Attalo ma lesse solo paura e frustrazione, senso di vuoto e confusione. Si girò verso Eleutherios che ora lo guardava curioso anch'egli di leggergli i sentimenti. E in lui intuì che Sparta era lontana e che non vi era posto per un ripensamento. Negli occhi del compagno lesse che il loro piano sarebbe andato avanti e che presto non ci sarebbe stata più Sparta nella loro vita, ma una luminosa strada che conduceva dritta verso la libertà.

L'indomani Nikos si svegliò alle prime luci dell'alba. Sentì le ossa indolenzite. Il giaciglio su cui dormiva sembrava più duro del solito: lo strato di paglia che ricopriva il rozzo materasso si era così tanto assottigliato che le sue membra posavano ormai sulla pietra. La fredda luce invernale filtrava attraverso un piccolo lucernario sulla parete. Si alzò e spiò nella stanza attigua. Sua madre dormiva ancora mentre non c'era traccia del padre. Sicuramente anche quella notte avrà dormito in caserma al dormitorio, pensò. Scostò il battente della porta esterna producendo il cigolio dei cardini e una fredda aria di montagna lo invase. Represse un brivido e si ingegnò a cercare la sua uniforme: mise su il chitone e si buttò dietro alle spalle il mantello. Il freddo dell'inverno aveva ormai cominciato a mordere le carni. Prima di uscire tornò a stazionare davanti alla porta della stanza della madre. Giaceva supina tenendo le braccia parallela al corpo ed una delle gambe sollevate con il ginocchio piegato all'insù. Nel buio della stanza non riusciva ad intuire i suoi tratti, ma poté' immaginare la sua fredda espressione da amazzone. Ebbe un sussulto al cuore, quella sarebbe potuta essere l'ultima volta che l'avrebbe vista. Questo pensiero lo mise di cattivo umore. Certo, pur se nella rigida educazione spartana non vi era spazio per le smancerie e i contatti fisico o per le pur timide manifestazioni di affetto, considerate appena un gradino più in basso dell'incesto, avrebbe ora voluto stringerla al petto e finalmente gridarle che le voleva bene e che se aveva preso la sua decisione finale non era certo per colpa sua. Avrebbe voluto accarezzarle i capelli come non ricordava mai di aver fatto e rassicurarla che non si sarebbe dovuta rimproverare nulla nella sua educazione, che era stata una buona madre e che lui l'avrebbe sempre portata nel suo cuore, che il suo esempio e la sua forza avrebbero sempre ispirato ogni azione della sua vita futura.

La catena dei suoi pensieri fu interrotta dal rumore che sembrò provenire dalla sala da pranzo. Poteva essere il padre che pareva stesse rincasando. Gli andò incontro un po’ timoroso. Il padre non appena lo vide gli buttò addosso un rapida occhiata. Sembrava alle prese con una vecchia spada che stava provando a rimettere in sesto. "Stai uscendo?" gli domandò quasi incurante della sua risposta. "Sì non voglio tardare, il paidonomo ci tiene molto alla puntualità" Il padre sembrò annuire distrattamente mentre era concentrato a scegliere da un ceppo la giusta lama. Nikos fece per uscire, non si aspettava molto dai soliti scarsi dialoghi col padre. Intuiva solo che era in certo qual modo contrariato dai rientri notturni a casa che la caserma ogni tanto concedeva a Nikos, permessi che venivano accordati sempre più spesso, approssimandosi per lui il momento di diventare un soldato a tutti gli effetti. Ma stavolta il padre lo chiamò a sé: "Andronikos” sentì squillare la sua voce rauca nel freddo pungente del mattino. Nikos ebbe un sussulto. Non solo si stupiva che il padre avesse pronunciato il suo nome per esteso, ma si stupì che lo avesse chiamato. Poche altre volte ricordava fosse successo prima. Il suo appellativo per rivolgersi a lui direttamente era ragazzo, più spesso, giovane con buona frequenza e le volte che lo aveva chiamato figlio si contavano sul palmo di una mano. Ma quella mattina sembrò tutto diverso. "Andronikos" ripeté suo padre vedendo che lui si era fermato sull'uscio della porta, ma non si era ancora voltato. "Dimmi padre" disse Nikos che provò un misto di emozione e rabbia in quel momento. Era così difficile chiamare il proprio figlio con il proprio nome? Era così squalificante per uno spartiate dimostrare un minimo di affetto nei confronti della propria prole? "Si padre" rispose Nikos senza ancora voltarsi. "Andronikos" fece lui su un altro tono che colpì stavolta le sue corde emotive. Per un momento pensò che il padre avesse intuito il suo piano. "E' tardi padre, devo andare" rispose lui con un misto di rabbia a malapena strozzando un singhiozzo che gli si formò in gola. "Stai attento ad Attalo, è figlio di suo padre" disse l'uomo con tono accorato. Nikos si voltò per un istante a guardarlo mentre per la prima volta vide una luce brillare in fondo agli occhi del padre. "Me ne ricorderò" disse e uscì. Attraversando il cortile si asciugò con la mano una lacrima che sembrò sgorgargli dal viso. Scosse la testa come a volersi distanziare da quella stupida emotività e tornò a pensare al gran giorno che l'avrebbe aspettato.

Il campo delle esercitazioni era già in pieno fermento mentre da dietro al palazzo di bronzo avevano cominciato a filtrare i primi raggi del gelido sole invernale. Un piccolo manipolo di ginnasti era ancora in fila presso la fonte: alcuni si lavavano, altri si ungevano il corpo di olio per poi passare a cospargersi la sabbia. Alla guida del comandante un altro gruppo di futuri spartiati stava già eseguendo i primi esercizi a corpo libero della giornata. Nikos si tolse il clamide velocemente che buttò in un angolo e si portò al centro del piazzale dove stazionava il paidonomo che incessantemente impartiva ordini a tutti i suoi con tono tagliente se non minaccioso. Nikos aveva notato che Adesilaos il paidonomo l'aveva scorto con la coda dell'occhio. Temette dalla sua espressione torva che potesse riservargli qualche punizione per il suo leggero ritardo. "Andronikos! questa è l'ultima volta che tollererò un tuo ritardo" gli ripose freddamente il militare indugiando nel suo sguardo. Nikos si fermò sorpreso del rimprovero. La voce del comandante risuonò velenosa nel silenzio del mattino. Tanto da scuotere l'intero battaglione. Tutti si fermarono di fare gli esercizi, attendendo con timore misto a morbosa curiosità l'esito di quello scontro. "Mi spiace, maestro, ho avuto una notte tribolata. E ho mancato di svegliarmi al canto del gallo stamani" Nikos si domandò un po' frastornato quali fossero i motivi dalla reazione del milite per solito molto ben disposto nei suoi confronti. Anche perché il suo comportamento era sempre stato irreprensibile. "Non ci interessano le tribolazioni delle tue notti, ne' come passi le tue serate, a noi interessa che per rispetto dei tuoi compagni tu possa cominciare gli esercizi prima che il sole abbia superato il colmo del palazzo. Già da un bel pezzo abbiamo fatto il saluto e tu non c'eri" Nikos incassò il colpo ad occhi bassi, mentre intuiva decine di sguardi torvi addosso. La notizia che aveva partecipato al suo primo sissizio e che aveva ottenuto il permesso di tornare a casa quella notte aveva evidentemente seminato molta invidia fra i suoi compagni. "Come punizione stamattina salterai gli esercizi ginnici e ti occuperai di pulire le nostre palestre" Nikos non poteva credere alle sue orecchie. "Ma comandante per questo ci pensano gli iloti" disse cercando di tenere a freno la rabbia montante mentre poteva sentire salire il sangue agli occhi che gli appannarono la vista per un istante. "Non discuterai i miei ordini, Andronikos figlio di Heron!" "Certo che no" rispose prontamente Nikos come rinvenendo d'un tratto. "Fino a nuovo ordine sei sospeso dalle attività della giornata. Puoi unirti agli Iloti" fece perentorio Adesilaos. "E voi cosa avete da guardare!" gridò con ferma autorità all'indirizzo dei ginnasti "tornate ai vostri esercizi" Nikos si sentiva come se avesse ricevuto un pugno in faccia, stordito e pieno di livore.

Attraversò il cortile della palestra mentre, roso dalla collera, cercava la sfida negli sguardi dei suoi compagni, che invece lo ignorarono. Non era mai successo a sua memoria che un futuro combattente avesse ricevuto una punizione simile. Diverse altre volte, per indisciplina, alcuni ginnasti erano stati esonerati dagli esercizi di routine per essere sottoposti a grandi prove di resistenza: corsa, sollevamento pesi. In alcuni casi anche le frustrate, aveva sentito, ma mai visto. Ma mai nessuno aveva scontato l'ignominia di pulire i bagni insieme agli schiavi. Entrò in palestra e sbatte' il suo clamide violentemente contro la panchetta di legno. Si rese conto di non essere solo. All'angolo opposto un gruppetto di iloti che stavano confabulando fittamente fra loro, sorpresi dalla sua entrata, si affrettarono a tornare alle loro mansioni. Nikos si lasciò cadere sulla panca e con lo sguardo perso nel nulla disse a voce alta "Non c'è bisogno che vi mettiate sull'attenti! Sono solo ancora un ragazzino... il capo che voi temete tanto è là fuori". Gli iloti si guardarono fra loro in silenzio producendosi in varie smorfie interrogative. Dopo un lungo silenzio, Nikos disse: "Bene, non mi vorrete lasciare qua impalato per tutta la giornata..." I quattro tornarono a guardarsi interrogativamente mentre il più anziano fra loro disse: "C'è qualcosa che possiamo fare per te, soldato?" Nikos sorrise amaramente. "Mezzo soldato, ancora, prego..." Ma se ne pentì subito dopo. Convinto che la sua ironia non sarebbe stata compresa e furioso di dover condividere la sua ira con degli schiavi.

3

 

La mattinata fu lunga e penosa. Nikos la trascorse a nettare i bagni della palestra a ramazzare i lunghi corridoi della palestra e a sanificare le immense pareti del casermone quelli esposti a nord invasi dall' umidità. Non spiccicò una sola parola con gli schiavi e quando aveva finito di fare il suo compito, in tono sprezzante , a voce alta diceva "E ora?" Nonostante il disprezzo che riservava loro, gli iloti erano molto servizievoli con lui, e il più vecchio fra loro dandogli un incarico si curava di guidarlo come andava fatto, mostrandosi dispiaciuto per lui . Prima di pranzo i ginnasti si ritrovarono in fila alla fonte per lavarsi dal fango e dal sudore accumulato durante la seduta mattutina. Nikos li scorse allineati a due a due in silenzio, davanti alla fontana, parecchi di loro ancora con il fiatone per i duri esercizi appena compiuti. Non appena tutti si furono lavati e asciugati, si diressero a passo di marcia nella grande sala della palestra. Nikos dovette consultarsi con l'aiutante del paidonomo per capire se per quella giornata sarebbe stato ammesso al pranzo in comune. La risposta non tardò ad arrivare. Gli era stato dato il permesso di reintegrarsi nel gruppo per il pranzo e subito dopo avrebbe potuto riprendere il programma del pomeriggio.

Il pranzo fu frugale come di consueto. Stretti nei loro corti sgabelli i futuri combattenti gomito a gomito si affrettarono a consumare pane di segala e un tocchetto di formaggio di capra in religioso silenzio, osservati da vicino dal paidonomo Adelisalos che passeggiava in silenzio quasi con fare minaccioso dietro alle loro spalle badando che non avessero a commentare alcunché'. Nikos non osò cercare lo sguardo del comandante nonostante sentisse che più volte questi gli puntasse addosso gli occhi. Nutriva un misto di sensazioni negative, dalla rabbia alla vergogna, dal risentimento all'odio per essere stato trattato da schiavo. E per tutta la durata del pranzo evitò di alzare gli occhi dalla tavola ben sapendo che avrebbe trovato addosso solo gli occhi nemici dei suoi compagni.

Dopo che fu servita la frutta, un paio di datteri e un fico a testa, fu ordinato di rompere le righe. Era il momento del rilassamento, l'unico momento libero della giornata in cui ai futuri combattenti era concesso di muoversi liberamente all'interno del recinto della palestra. Nikos odiava questo momento. Lontano dagli sguardi del paidonomo e dei suoi aiutanti che si ritiravano all'occasione per pranzare a loro volta, i giovani spartani davano prova delle crudeltà più inaudite. Non era infrequente che in quel breve lasso di tempo scoppiassero liti o regolamenti di conti o che si ingaggiassero lotte furibonde. Appena qualche giorno prima il gruppetto della Mantinea, un quartiere bene della città, aveva pestato a sangue un giovane colpevole solo di essere figlio di perieci appena trasferiti in città. Nikos temeva tantissimo questo vuoto di potere, sarebbe potuto succedere di tutto. Lontano dagli sguardi del maestro si dava sfogo agli stinti più bestiali, era come se a ciascuno di loro si desse finalmente la possibilità di poter scaricare tutta la rabbia repressa, senza doverne affrontare le conseguenze. Il comandante e i suoi assistenti sapevano quello che succedeva in quei momenti di libertà ma lasciavano correre. Al rientro alle attività non era infrequente che si dovessero medicare dei giovani spartani pestati a sangue dai loro stessi compagni. Ma la cosa era tollerata e non era prevista punizione per i violenti se non in casi estremi. Anche questo faceva parte dell'educazione spartana. E la cosa che Nikos aveva notato era che si scoraggiavano i rapporti di amicizia fra i compagni. Ogni qualvolta gli assistenti intuivano che due ginnasti fossero particolarmente in buoni rapporti, alla seduta successiva era quasi automatico che venissero messi contro negli esercizi della lotta libera. Spronati a picchiarsi a superarsi a competere e a odiarsi in definitiva. Non a caso gli unici amici di Nikos, Attalo e Eleutherios appartenevano ad altri ginnasi della città.

Finito il supplizio della pausa, nel pomeriggio era il momento delle lezioni. Nikos prese posto nella fila di banchetti che a ferro di cavallo contornavano la fredda aula scolastica. Senza fiatare, si curò di nettare la sua parte di banco che alcuni suoi compagni avevano cosparso di fango e paglia secca. Tirò su un bel respiro ed evitò di alzare gli occhi per timore di dover fare i conti con la propria collera. Quello sarebbe stato l'ultimo giorno fra loro, si disse, ed era saggio non attirare su di se altre rogne. Poco dopo entrò il paidonomo con alcuni dei suoi assistenti. Il programma della giornata prevedeva “teoria e tecnica della guerra”. "Oggi parleremo della battaglia delle Termopili, nel contesto della guerra contro i Persiani. E a questo proposito ho pensato che sarebbe stato utile sentire dal vivo la cronaca di quei concitati momenti storici attraverso le parole di chi vi ha partecipato personalmente." Fra gli studenti, per solito refrattari alle lezioni di storia, si produsse un' improvvisa scossa di adrenalina. Alcuni si guardavano soddisfatti, altri sembravano emozionati. Nikos, ancora segnato dalla dura giornata, rimase impassibile. "Intanto cominciamo col dire che se non fosse stato per questi valorosi 300 spartani opliti, al comando dell'indomabile re Leonidas, la Grecia non avrebbe mai potuto vincere la sua guerra contro l'invasore nemico" Nikos fu tentato d'intervenire. Avrebbe voluto aggiungere che oltre al coraggio degli Spartani, la guerra era stata poi vinta grazie all'intervento della poderosa flotta ateniese di Temistocle. Ma si morse la lingua. Decise che non si sarebbe attirato ulteriori critiche quel giorno. "A quei tempi, circa 30 anni fa, c'era un solo esercito che avrebbe potuto fermare re Serse e le migliaia di soldati al suo seguito. Questo esercito era composto dai vostri padri e dai vostri nonni. E tutti noi dobbiamo essere fieri di quello che siamo adesso: lo dobbiamo a loro e solo a loro". E dopo un veloce riassunto delle posizioni in campo finalmente arrivò il momento tanto atteso da tutti.

"Spartiati, è con immenso piacere che oggi accogliamo fra noi un valorosissimo reduce della battaglia delle battaglie. E' fra noi Licene, detto il leone di Persia, nonché affettuosamente soprannominato il guercio di ferro" Dalla porta sbucò l' attempato guerriero, che indossava la pesante armatura oplite, l'elmo a spazzola e teneva nella sinistra il famoso scudo marchiato dalla lambda e nella destra una lunga lancia. Nikos ebbe un sussulto appena si vide davanti il padre dell'amico Attalo, reduce la sera prima della pantomima attorno alla tavola del sissizio. Alla luce del pomeriggio che filtrava attraverso le larghe finestre, il suo corpo voluminoso che un tempo doveva esprimere forza bruta grazie a quella massa di muscoli, appariva ormai un sacco sgonfio, il petto cadente e segnato dalla cicatrici, i muscoli irrimediabilmente rattrappiti, la postura curva, non più capace ormai di ergersi dritta. Nikos ebbe un senso di disgusto che faceva fatica a tenere a bada. I suoi compagni invece si mostrarono emozionati di poter avere al loro cospetto l'eroe della battaglia delle battaglie. E al cenno del paidonomo, si alzarono in piedi scandendo il celebre grido di guerra auh auh auh. L'emozione fra tutti era tanta, quanto l'imbarazzo che il personaggio si portava cucito addosso. Infatti non passò molto che, prima che il vecchio guerriero, poté' aprire bocca, si era già capito che fosse ubriaco. Il suo incedere, come una sorta di parata militare nel centro dell'aula vuota, tradì da subito le sue pessime condizioni. Gli assistenti dovettero correggere la sua andatura per evitare che nel girarsi potesse dare inavvertitamente un colpo di lancia in testa agli allievi. I quali accortisi dello stato alquanto alterato del guerriero, non ci misero troppo a mutare i loro sentimenti. E dalla cieca ammirazione passarono velocemente all'imbarazzo e poi, dopo che Licene lasciò inavvertitamente capitombolare dalla mano il suo pesante scudo, alla sorpresa e, infine, alla derisione finale. Adesilaos, che condivideva con gli allievi il suo imbarazzo, non appena intuì che l'uomo non era in grado di poter spiccicare una sola parola, fece cenno ai suoi assistenti di accompagnarlo con delicatezza fuori dall'aula. Senonché, Licene non appena si sentì sfiorare, accorgendosi di essere preso per lo zimbello di Sparta, andò su tutte le furie e, come spesso capita agli ubriachi, ebbe un sussulto nervoso: lasciò così cadere a terra la pesante lancia che fece un grosso rumore, sguainò la spada e cominciò a mulinarla in aria. Gli allievi impauriti dalla imprevedibilità dei suoi gesti saltarono sui banchi e arretrarono nel fondo dell'aula. Adesilaos che capiva che gli era sfuggita di mano la situazione fece cenno ai suoi assistenti di immobilizzare l'ubriacone e di rimuoverlo velocemente dall'aula. Cosa non semplice, dal momento che Licene era come un animale in gabbia. E si difese a colpi di scudo. Uno dei due assistenti rimase colpito dolorante alla spalla mentre Adesilaos si fiondò fuori a cercare aiuto. Presto una squadra di guardie fece irruzione in classe. L'uomo fu immobilizzato e mentre si dibatteva gridava: "All'assalto Spartiati, il sangue Lacedemone, frutto di questa terra invisa agli dei, vittoria contro il nemico invasore..." il tutto sotto lo sguardo atterrito e allo stesso tempo divertito degli studenti. Le ultime parole che si sentirono furono gridate da Licene all'indirizzo di Adesilaos: "Spia persiana, sei tu la rovina di questa città! Ma ti faremo fustigare un giorno o l’altro..."

Il freddo sole invernale si precipitò presto oltre le montagne del Taigeto. Nikos si ritrovò da solo nello spogliatoio mentre il resto degli allievi si era ormai spostato in caserma. Si guardò le mani e pensò quante cose avrebbero potuto fare piuttosto che manovrare armi. Sentiva una specie di spossatezza nell'animo e nemmeno la pantomima di Licene era servita a tirargli su il morale. D'un tratto scattò in piedi e come scrollandosi di dosso i cattivi pensieri, si ricollegò al flusso positivo del sua energia interna. L'appuntamento quella sera era di fronte al tempio di Arthemide Orthia dove era in programma la cerimonia del sacrificio e l'iniziazione dei nuovi guerrieri. Da lì sarebbe cominciata la sua nuova avventura. E tutto ciò, la caserma, la palestra, i compagni, tutto sarebbe rimasto solo un lontano ricordo.

4

 

Un fiume di gente si riversava per la retta via che congiungeva la città al tempio. Le ombre erano calate da un pezzo, ma sembrava fosse pieno giorno, tante erano le fiaccole che illuminavano il cammino. Il fumo delle torce rendeva l'aria irrespirabile. Quella cerimonia raccoglieva ogni anno migliaia di spartani ma anche tantissimi iloti che scendevano dalle montagne attratti dalla curiosità. Ad un certo punto, dal fondo della piazza si sentì un rullare di tamburi, grave e cadenzato cui presto si unì un suono di flauti lungo E monotono. La folla si aprì a poco a poco e dal tempietto a latere spuntò il corteo. I sacerdoti incappucciati da lunghe bende di lana aprivano il corteo, vestiti da lunghe vesti bianche. Poi seguivano gli officianti del tempio e un po’ dietro sbucò l'esercito degli Uguali che marciava con il tipico passo cadenzato di guerra. Nikos si era appostato defilato su una roccia che spioveva in uno degli angoli della piazza del tempio. Da lì avrebbe potuto controllare senza essere visto l'arrivo dei due suoi amici e avrebbe potuto assistere da pochi passi alla grande cerimonia.

D'un tratto Nikos ebbe un tuffo al cuore quando la musica si fermò e nella piazza si fece silenzio. Si rivide bambino quando aggrappato al mantello della madre assistette per la prima volta alla cerimonia degli iniziati. E il ricordo di quella sera avrebbe tormentato il suo sonno per anni e anni. Poi, nel silenzio assordante, gli Uguali rotearono disponendosi su diverse file. In coda al corteo venivano la guardia reale con i pennacchi dell'elmo color rosso sangue e gli scusi dorati che recavano le insegne delle famiglie più in vista. E alla fine vennero i paidotribi, i comandanti delle caserme e poi per ultimo gli iranes i giovani che aspiravano a diventare soldati. Non appena giunti dal tempio i due re che presero posto sui loro troni la cerimonia ebbe inizio. Dapprima furono sgozzati una decina di animali, vittime sacrificali, e le loro interiora poste al rogo che presto sparse nell'aria un acre tanfo sinistro. Finalmente uscirono i cinque Efori che presero posto fra i membri della gherusia mentre gli araldi cominciarono a chiamare per nome gli aspiranti guerrieri. Ad uno ad uno i giovani furono fustigati al suono dei flauti mentre il silenzio cadde sulla folla. Le loro membra si contraevano nello sforzo immane e quando le frustate riscaldavano il loro sangue si udivano dei gemiti di dolore misti a quelli di piacere. Nikos tremò al solo pensiero che la prossima primavera sarebbe toccato a lui.

Finalmente da sopra la rocca vide un'ombra imboccare il sentiero. Poco dopo comparve Attalo, scuro in volto. Nikos lo aiutò a tirarlo in cima alla rocca mentre lui si arrampicava sugli ultimi appigli. Poi zoppicando dalla gamba destra provò subito a trovare sollievo distendendosi fra le frasche del pianoro. "Mi sembri un po'malconcio, che ti è successo?" Gli chiese Nikos. Lui fece finta di non sentire, mentre provava a trovare la migliore posizione per la sua gamba dolorante. "Ma non ti viene il vomito a guardare ogni anno le stesse scene"? fece per tutta risposta, senza curarsi di guardarlo negli occhi. Da lontano si sentivano stentoree le amare frustate che si scagliavano sulle dei futuri guerrieri. "Hai ragione, e ogni anno ho pensato al modo di potermele risparmiare" rispose Nikos serio. Poi sorrise con lo sguardo furbo: "E credo proprio che stasera abbiamo finalmente trovato il modo ..." Provò a sorridere ma vide che Attalo non era dell'umore giusto. Nel frattempo, sentirono un urlo di delusione provenire dalla piazza: uno dei guerrieri sembrava non avercela fatta. Sembrava essere svenuto. E ora veniva portato a braccia giù dall'altare dai due araldi. Mentre la folla si apriva al loro passaggio sottolineando con borbottii la propria disapprovazione. "Poverino, lo conosco, è Rodion, figlio di Callisto" fece Nikos che ora si era seduto e aveva preso le gambe sotto le sue lunghe braccia. "Sarà un brutto colpo per la sua famiglia" "Se gli finisce bene, saranno costretti a lasciare la città da uomini liberi" rispose Attalo cui sembrava facessero difetto le parole quella sera. "Senza contare lo scorno che dovranno patire per il resto della loro vita" Attalo parve per un attimo guardare Nikos con rimprovero. Questi si lasciò sfuggire un moto di scoramento: "Pensi che questa città ci perdonerà mai per quello che stiamo per fare?" "Perdonare? Chi Sparta?" Attalo si produsse in un sorriso amaro. I due tacquero per un po'. Nikos aveva intuito che Attalo era stato pestato a sangue da suo padre, chissà per quali motivi. Non sarebbe stato facile farglielo ammettere. Nonostante Licene fosse diventato con il tempo un perfetto buono a nulla di stato, per ricompense militari, tutti lo evitavano come la peste. Picchiava la moglie e i suoi due figli spesso. Ma a dispetto di ciò Attalo non aveva mai speso una parola di lamento contro di lui.

Passò poco e dal sentiero che conduceva alla rocca si sentirono dei leggeri passi che frusciavano fra il sentiero degli ulivi. Era Eleutherios che si portava appresso il suo costante buonumore e sembrava fischiettare ironicamente la marcia degli uguali. Attalo, riconoscendolo, mal represse una smorfia di insofferenza: "Eccolo qua, è arrivato il nostro principe: adesso sì che siamo in mani sicure” Nikos ebbe una sensazione sinistra. Capiva che dalla scarsa stima dei due compagni sarebbero solo derivati dei guai e attese in silenzio di cattivo umore l’arrivo di Eleutherios in cima alla rocca. “Cari spartiati, è con immenso onore che vi annuncio l’arrivo del vostro comandante: Eleutherios di Gordias” esordì Eleutherios, con fare scherzoso, attendendosi un riscontro all’altezza del suo spirito. Ma Attalo gli riservò un veloce sguardo di disprezzo e si chiuse subito in un ostinato silenzio. Nikos, per ovviare alle cattive maniere di Attalo, si prodigò invece a dargli il benvenuto, accertandosi delle sue buone condizioni fisiche. I due sorrisero scambiandosi degli sguardi complici, fin quando Eleutherios infastidito dal silenzio di Attalo, provò a punzecchiarlo come spesso succedeva: “Non mi dire che anche stasera hai la luna storta?” gli disse accertandosi che il tono fosse più canzonatorio che irriguardoso. “Di certo non lo vengo a dire a te se gli Dei mi sono di compagnia in una serata come questa” ribatté Attalo con aria infastidita. Nikos, fiutando l’aria pesante, provò allora a spostare l’attenzione sulla piazza dove intanto l'emozione per la disfatta del giovane Rodion era scemata e la folla sembrava aver ripreso fiato.

L'attenzione di tutti adesso era attirata dal palco delle Vergini. Ben presto cominciarono a sfilare gli efebi, agghindati come si conviene a dei perfetti ginnasti. Ad uno ad uno gli efebi venivano chiamati al cospetto delle vergini che al ritmo dei tamburi, in una sorta di danza cadenzata, gli si stringevano contro a ferro di cavallo. Agli efebi era concesso di muoversi e di mettere in bella mostra il loro corpo producendosi in esercizi a corpo libero che più potessero metterne in mostra i loro muscoli. Di volta in volta spettava poi alle Vergini approvare o disapprovare i loro esercizi. Non era infrequente che gli esercizi dei poveri efebi non raggiungessero le aspettative delle vergini che impietosamente ne sottolineavano la goffaggine con violenti ululati e gridolini di derisione.

"Sono poco più che delle bestie" disse amaramente Attalo che continuava a toccarsi la gamba dolorante. Nikos tacque e Eleutherios sghignazzò a suo modo, sprezzante nei suoi confronti. Tornò il pesante silenzio fra loro mentre dal palco cominciavano a sfilare le 12 Vergini in costume da festa. "Ecco che inizia un’altra carneficina" fece Attalo che represse in una smorfia il dolore causato dalla sua storta. Eleutherios lo fissò allora insistentemente e gli disse: "Sei l'unico qua a portare disprezzo alla festa delle Vergini, sappilo! Non è che forse è la paura delle donne che ti rende così acido?". Nikos distolse lo sguardo dai due. Ad un tratto si ritrovò sospeso sulla roccia, come fosse l’unico ospite di quello spettacolo in quella gelida notte invernale. Puntò lo sguardo alle stelle e perdendosi nel firmamento sembrò smarrire anche il suo baricentro sulla terra. Ad un tratto non riusciva più a spiegarsi bene cosa stesse facendo lì e a quali motivazioni avesse mai ceduto per caricarsi il peso di quelle gravose responsabilità. Fu lui allora a un certo punto a rompere il ghiaccio.

5

 

"Bene, compagni, non so perché stiamo prendendo questo momento con così con tanta tensione. Visto che tutto sommato nessuno di noi ha le giuste motivazioni per fare quello che andrebbe fatto” I suoi compagni lo guardarono increduli e tuttavia non seppero frapporre niente in mezzo alla sua lunga pausa prima di riprendere a parlare. “Sapete, io ho sperato nei giorni scorsi che in voi potesse sorgere quel desiderio di cambiamento e che potesse crescere e diventare almeno pari al mio. Ma devo ammettere che più che averlo constatato l’ho solamente desiderato in voi. E la cosa che mi fa più rabbia è che io l’abbia dolorosamente aspettato in voi, quando invece per me era già chiaro che lo avessi già fatto mio” Eleutherios, scrollo' le spalle e si produsse in una smorfia delle sue. Il suo volto tornò insolitamente serio, avendo intuito il grave atteggiamento di Nikos. “Ma Nikos, perché parli così? Cosa ti succede mai amico mio? Per quale motivo adesso ti stai comportando in questo modo?

Vedi Eleutherios, lasciare la nostra città, la nostra patria, la nostra famiglia, le nostre tradizioni, il nostro sangue è quanto di più difficile si possa chiedere ad uno spartano. Il perché lo sappiamo: siamo spartani, siamo diversi da tutti i popoli che abitano la Grecia e forse da tutto il mondo conosciuto” “Sono d’accordo” ribatté Eleutherios facendo attenzione adesso a non suscitare altre incomprensioni con l’amico. “No Eleutherios, non sei d’accordo con me tu” Eleutherios tornò a scrollare le spalle in un gesto che significava la resa alle motivazioni di Nikos. “Quante volte ti ho detto parlando della nostra fuga dalla città che essa sarebbe stata l’esperienza più grande che uno spartano avrebbe potuto mai provare nella propria vita? Quante volte mi sono soffermato sulla nostra volontà, sulle motivazioni che potevamo e dovevamo trovare in noi stessi?” Attalo sembrò annuire alle parole dell’amico, facendo notare in silenzio che anche lui fosse in qualche modo d’accordo con le parole di Nikos. “Tu adesso mi dai ragione…Attalo” lo rimbeccò Nikos amareggiato “eppure non mi è mai sembrato che tu avessi preso questa faccenda troppo seriamente” “Non è vero!” protestò con veemenza Attalo, tradendo un certo nervosismo “come puoi dire questo di me? Sapendo come io viva peggio della morte la mia esperienza in città e all’interno della mia famiglia?” Nikos lo guardò con compassione e con studiata lentezza. “Amico mio, è proprio questo quello che intendo. Fuggire da questa città non deve essere la tua unica possibilità di sopravvivenza! Non deve e non può rappresentare la risoluzione di tutti i tuoi problemi. La fuga da Sparta è un atto di convinzione che nasce nel proprio intimo, non un atto di convenienza!” Attalo si mostrò ferito adesso.

Mi stai offendendo con le tue parole, Nikos” disse Attalo. “Nessuna offesa” riprese Nikos cercando di esporre con ordine il suo pensiero “ricordi cosa ti dissi quella volta in cui mi facevi notare che tuo padre era il motivo principale della tua partenza?” Attalo si girò dall’altro lato, a stento trattenendo le lacrime mentre il petto cominciava a prodursi in sussulti irrefrenabili.

Faresti bene a piangere, ti libereresti almeno …fallo pure se vuoi, anche se a Sparta ci insegnano che un uomo non deve mai piangere. E proprio per questo credo che noi non abbiamo la colpa di come siamo e delle nostre reazioni, delle nostre paure e dei nostri timori: purtroppo noi siamo quello che ci hanno insegnato ad essere. E per questa ragione, amici miei, per tutto quello che non riusciamo a scrollarci di dosso, faremo sempre fatica a riadattarci in una realtà che non sia uguale o simile a quella in cui ci hanno insegnato a vivere” “Taci! Tu ci hai ingannati!” insorse allora Eleutherios, alzandosi in piedi minacciosamente “taci maledetto, non vedi che Attalo è distrutto dal dolore” tuonò serrando i pugni e digrignando i denti.

Nikos si sentiva motivato, come forse non lo era mai stato. Ebbe come la sensazione che le parole che gli si creavano sulla bocca fossero quasi il distillato di quella saggezza che aveva sempre voluto perseguire ma che non aveva mai trovato dentro. Allora si alzò e avvicinandosi ad Attalo provò a sfiorargli la spalla. Ma quello si dimenò scostandogli violentemente il braccio. “Ti parlo da fratello maggiore, Attalo. Non siamo fatti per il mondo esterno, non ne avremmo le forze. Non potrebbe essere possibile la nostra vita all’infuori di questa valle. E ’la verità, credimi. E se per diversi giorni anch’io ho accarezzato il sogni di poter essere libero un giorno in un altro mondo, in un’altra vita, in un’altra città…era solo una pura illusione. Noi apparteniamo a Sparta e qua si compirà il nostro destino”.

Era notte fonda quando la folla cominciava a scemare dal Tempio di Arthemide Orthia verso la città. Era stata decretata la fine della cerimonia, e ognuno rientrava mestamente verso casa, incapace di comprendere se avesse assistito ad uno spettacolo o alla crudele rappresentazione del proprio destino. I tre amici stettero in silenzio finché la folla defluì tutta. Poi si fecero sorprendere dal silenzio e, incantati dalla volta celeste, forse compresero per la prima volta l’immensità dell’universo e l’immutabilità delle sue leggi.