Dimmi come parli... e ti diro' chi sei (parte prima)
Durante il periodo universitario, seguendo le lezioni di Linguistica del prof. Giovanni Ruffino, allora preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Alma Mater di Palermo, mi appassionai così tanto ai suoi colti richiami al dialetto, che in seguito, potendo scegliere di modificare il mio piano di studi inserendo una materia a scelta fra quelle in ambito di Linguistica, non esitai ad inserire Dialettologia Siciliana. Quell’anno ricordo che il corso monografico verteva sulle varianti sicule del dolce pasquale per eccellenza: una sorta di tradizionale pandolce dalle forme più disparate e con l'innesto di un uovo sodo, presente un po' ovunque in Sicilia con una miriade di nomi diversi, da Pupu cull’ovo a Campanaro, da Cannateddu a Cuddura, da Panaredda a Palummeda, Cannileri e via discorrendo. Credo che fu da quel momento che ebbe inizio un personale percorso sotterraneo che mi porta, ancora adesso a distanza di anni, a confrontarmi spesso con i miei amici sparsi sull'isola e ad appassionarmi insieme a loro sul significato, la provenienza e le sfumature delle parole del nostro ricchissimo dialetto.
Si dice che la differenza fra la lingua e il dialetto sia sostanzialmente dovuta al corredo di letteratura che la prima si porta appresso. Mentre il dialetto spesso e volentieri sfugge alla regola e non sembra lasciarsi domare. In primis perché non è spesso traslitterabile in maniera univoca: sarà capitato a tutti alle prese con uno scambio di whatsapp di chiedersi ad un certo punto come scrivere in dialetto la parola "sangue" (-ngu finale non è esattamente la stessa cosa) oppure "coltello" (cute-ddu o cute-ddru?) Per non parlare della sua fonetica anch'essa molto variabile: ad esempio il dittongo tri/tra/tru o anche dri/dra/dru (Trapani / travagghiari / trunzu /panareddru / addrumari ) suoni che in siciliano hanno più un sapore british (tree / trouble / Trumann /dry / drone ...) , oppure sempre lo stesso dittongo tr preceduto da "s", non producono esattamente lo stesso suono a seconda delle varie latitudini a cui ci si ritrova: strata, stricari, strunzu etc. Secondo poi perché, anche potendola traslitterare, bisogna mettersi d'accordo su cosa scrivere, dal momento che il dialetto siculo annovera così tante varianti (per una stessa parola) che si rende arduo, se non impossibile, uno standard di accettabilità valido per tutti.
Non solo da città a città ma anche a volte all'interno dello stesso territorio le parole si sono geminate in maniera diversa, dando vita a diversi sinonimi più o meno intelligibili dal resto delle comunità vicine. Peraltro, oltre alla mancanza di una letteratura al seguito (per dire: non c'è un Alessandro Manzoni siculo) che ne certifichi lo status di lingua, in siciliano non esiste nemmeno un'Accademia della Crusca che garantisca l'ortodossia di una parola rispetto ad un presunto standard. Ufficialmente, dunque, il siciliano non può essere una lingua ma un dialetto. Purtroppo, bisogna farsene una ragione.
La tesi puo' essere dimostrata empiricamente con un semplice esperimento: chiedere a dieci siciliani di dieci città diverse di scrivere in "siciliano" una frase tipo, anche la più banale: "il gatto si spavento' cosi' tanto che gli si era arruffato tutto il pelo". E gia' partiamo male, solo per dare un'idea sulle diverse parole per gatto, si attestano: atto, jattu, gattu, e così via senza voler comparare il resto. Oppure si guardi alla parola lucertola che è straordinaria nella sua incredibile varietà. Si passa da: vacertula a scurpiuni, da serpi, a ciaramucia, da zazzamita (ma in alcune zone indica più il geco) fino ad arrivare al marsalese cucciajjda. Per annoverare solo le versioni di cui io sono a conoscenza, almeno ... Un assortimento formidabile che testimonia della ricchezza del nostro dialetto e ne decreta probabilmente la scarsa probabilità di poterlo un giorno ricondurre a lingua.
Un vecchio adagio recitava: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Allo stesso modo credo che si possa estendere il sillogismo, cambiando leggermente i termini: dimmi come parli e ti dirò chi sei. Studiare il dialetto, le sue regole, i termini e la sua pronuncia, oltre a permetterci di affondare lo sguardo in profondità sulla nostra storia e sulla nostra cultura, serve anche per riuscire ad approfondire l'indole di una comunita': come parla, come interagisce, che effetto fanno le parole e come le usa il parlante in relazione alla sua personalità e che relazione si crea fra il suo modo di esprimersi e la comunità di cui fa parte. Un aspetto che forse oltre che della dialettologia sarebbe di pertinenza della branca dell’Etno-antropologia o dell' Etno-Linguistica sociale… un territorio a metà di tante discipline, interessante e sfizioso.
Parlando di dialetto, in Sicilia, è noto, viviamo in una sorta di perenne dicotomia. E' come se fossimo ancorati a due capitali, due modelli principali che rappresentano i centri di propulsione di due culture simili ma non uguali. Con Palermo e Catania che rappresentano l’alfa e l’omega di questa non troppo sotterranea e spesso spassosa querelle. Una rivalità che va ben oltre il dialetto ma che si estende a tutte le branche dello scibile umano: dalla vexata quaestio sul genere dell’arancino o dell’arancina (non se ne può più) alle differenti culture culinarie, dal calcio ai differenti modi di vivere e di intendere la vita. Il tutto passa ovviamente dal dialetto, vera cinghia di trasmissione della personalità di una città e di un territorio.
Il palermitano è più filosofo, più contorto e criptico e si esprime lentamente, è più “misurato” (almeno nell’eloquio) e ha una cadenza più marcata. Ovviamente ogni palermitano che si rispetti, metterà nella sua parlata dialettale la “i” in accompagnamento di tutte le vocali, anche quando meno ce lo si aspetta (Paliemmu / aistuta/ miedda / vojjddiiri etc.). Diverso il caso del catanese che sembra sempre invece aver trangugiato litri di caffè brasiliano. Il suo eloquio è veloce, incalzante, a volte nervoso e molto musicale, caratterizzato da una serie imprevedibile di variazioni di toni, in un saliscendi vorticoso. E quando pensi di essere arrivato alla nota più alta, è lì che si ci sbaglia di grosso: il catanese ha gia' cambiato marcia, proiettato verso vette inarrivabili.
Se il palermitano è filosofo, il catanese è lisciu (dal termine liscìa, antico sapone), usa una sottile forma di ironia allegra e il suo dialetto si caratterizza forse da termini più fantasiosi e creativi spesso espressi con una sola parola (intraducibile in italiano) o con un concetto contenente più sfumature di significato. Il catanese dice “ma squaru” per farci capire che qualcosa sta andando male o per lo meno diversamente da come era stata pronosticata. La frase magica Avaya mbari! invece, non riesce forse a rendere per intero il senso di seccatura e di frustrazione cui è sottoposto chi la pronuncia. Mi cassariai! è utilizzato invece per esprimere un malcelato senso di confusione misto a paura e timore. ‘Nhai ru poccu è infine un modo non troppo velato, ma sintetico ed efficace, per apostrofare qualcuno di cui non si ha evidentemente una grossa stima. Giusto per citare le basi.
Ci sono poi dei termini malintesi che rimbalzano fra Palermo e Catania con significati completamente diversi. Ad esempio la parola pacchiuni. All’ombra dell’Etna qualsiasi ragazza appellata con questo termine, si sentirebbe probabilmente lusingata. A Catania infatti il termine pacchiona indica una sorta di bellezza rara. Discorso diverso per il “pacchione/pacchionello” palermitano. Qui, se si viene appellati in questa maniera, significa con molta probabilità che è arrivato il momento di mettersi a stecchetto. Il termine infatti assume una connotazione negativa, indicando impietosamente qualcuno in evidente sovrappeso.
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Dimmi come parli... e ti diro' chi sei (parte seconda)
Ma la cifra della palermitaneità si esprime forse più che nei termini utilizzati del suo dialetto piuttosto nel modo in cui il palermitano affronta una conversazione. Ricordo quella volta in cui, andai a prelevare mio fratello alla stazione di Palermo. Non era infrequente che la nostra prima tappa in città fosse il mercato del Ballarò. Eravamo ai primi di novembre e Ballarò si dispiegava al solito davanti ai nostri occhi come un meraviglioso e caotico antro delle belve. Alle folate di scirocco tiepido, si univa il fumo che si sprigionava dai marmittoni in cui si bollivano le specialità della bassa: panelle, crocchè, milza, quarume e tutte le possibili cartilagini animali (anche le più inimmaginabili). E mentre deambulavamo in relax con l’immancabile birra in mano (la Forst, che manco a dirlo a Palermo diventava a Fojjst) venimmo puntati da un paio di panellari, colpiti forse dalla mise eccentrica di mio fratello. Il quale, provenendo dalla fredda Bologna, indossava una sorta di parka molto pesante, imbottito di lana che sembrava sbucare da tutte le parti. Indubbiamente, un po’ troppo per il tiepido novembre palermitano. Quando sfilammo loro accanto, i due panellari non fecero una smorfia, ma non appena fummo a distanza di una decina di metri, uno dei due scoccò la freccia: “Ma quann’è che t’u levi stu matarazzu di ncoddu?” Ossia: “ma quando pensi che sia arrivato il giusto momento di toglierti questa sorta di materasso che indossi (e che molto probabilmente ti fa soffrire come se fossi un pinguino nel deserto)?” Inutile dire che rimanemmo piegati in due dalle risate. Mio fratello tornò addirittura indietro per stringergli la mano e per complimentarsi per l’incredibile e sintetico pezzo di teatro estemporaneo che ci aveva offerto quel tizio.
Ma cosa ci dice quest'episodio? Che il palermitano è sfrontato, che non ha peli sulla lingua e che con l'ironia o il sarcasmo riesce ad intessere simpaticamente la sua ragnatela di rapporti. Tutto giusto. Ma non deve sfuggire che, insieme a tutto questo il panellaro ha inteso testare il polso di mio fratello (in palermitano è tastare u puso) e in un breve lasso di tempo ha rotto il ghiaccio, è entrato in confidenza, ha suscitato simpatia con il suo motto di spirito e ha ottenuto visibilita'. Un modo sottile e ingegnoso per stabilire i rapporti di forza con l'altro. Come i gatti che segnano il confine.
La teatralità quindi. Il palermitano vive per quello. E il mercato è un enorme palcoscenico in cui lui mette in scena la sua maschera. Un caro amico mi raccontò una volta di un episodio che gli capitò davanti ad uno dei luoghi di ritrovo della città. Insieme con la sua ragazza, in relax, adagiati sul sellino del vespone, erano intenti a mangiare un gelato quando si videro parcheggiare accanto una 127 special, smarmittata, il cui cofano sul retro sembrava toccare a terra, tanto era zavorrata. Dallo sportello guidatore spuntò d’improvviso un uomo sulla mezza età, tozzo, tarchiato e dal peso di almeno di un quintale. Non appena scese dall’auto, il cofano sembrò magicamente sollevarsi di un buon mezzo metro. Subito dopo un nugolo di bambini cominciò a sbucare dalla 127. Se ne contarono uno, due, tre, quattro, forse cinque, di età assortita dai 4 agli 8 anni. In auto, al posto navigatore era rimasta intanto la nonna che, secondo quanto riferiva il mio amico, doveva pressoché assomigliare a una sorta di Sora Lella. I bambini, che non rimasero in silenzio per un solo secondo, reclamavano chiassosamente il gelato e lo facevano nel modo tipico dei bambini, saltando come delle schegge impazzite attorno al nonno e gridando come degli ossessi, eccitati all’idea del gelato che di lì a poco li avrebbe aspettati. Dopo 5 minuti i bambini furono i primi a sbucare dal portone del bar, finalmente in silenzio e concentrati a sorbire il gelato con i musetti pieni di rivoli. Il nonno uscì per ultimo e, oltre alla naturale difficoltà a deambulare per via della considerevole pinguedine, lo si vide combattere alle prese con un esercizio di equilibrio. Teneva infatti fra le mani un grappolo di coni a gelato che, a contatto con il sole cocente avevano cominciato a squagliarsi e a creare rivoli multicolore che gli colavano impietosamente fino ai polsi. In preda alla disperazione, l'uomo cominciò allora a tentare di arginare il danno, dando una leccata al primo, per poi passare al secondo e poi al terzo che aveva cominciato a sua volta a cedere. Ma al quarto non ci arrivò. Infatti, proprio a due passi dalla portiera della macchina, quando già il traguardo era vicino, accadde l'irreparabile. Il quarto cono, quello più esterno del mazzo, quello su cui l'uomo aveva forse meno presa, cedette e in un interminabile momento che sembrò un’eternità, si staccò tragicamente dalle sue dita per spiaccicarsi impietosamente sul marciapiede bollente. L'uomo restò interdetto per una lunga frazione di secondo. Tutto sembrò fermarsi attorno a lui in un momento di emotività collettiva: la lapa dello sfincionaro che gli sfrecciava accanto, il cinguettio degli uccelli, la musica dei transistors del venditore abusivo di cd. Il mio amico stesso ne fu quasi sconvolto. Tutto si fermò in un fotogramma eterno. Dopodiché, rimodulata la sua maschera e riguadagnata la dignità perduta, in un batter d'occhio, l'uomo alzò il capo, ammiccò verso il suo pubblico che intanto aveva creato un capannello attorno a lui e, con un'espressione da abile teatrante, profferì testuali parole: "’inchia vuojjddiri… mancu un liccuni ci potti dari!" Inutile dire che da quel momento in cui ascoltammo quell'aneddoto il liccuni divenne per me e i miei amici, la pietra angolare della palermitaneità, nonché sinonimo e termine di paragone per ogni occasione persa o sfuggita per le mani all'ultimo minuto, in zona Cesarini, si potrebbe dire, per chi mastica di calcio.
Parlando di dialetto, la Storia, quella con la S maiuscola, c'entra ovviamente di diritto. Il sangue che ci scorre nelle vene è infatti il risultato di diverse stratificazioni e di contaminazioni che nel tempo hanno reso i siciliani così come sono adesso. Ed è “grazie” alle passate dominazioni straniere che il nostro dialetto, la nostra parlata e i gesti che vi si accompagnano si è arricchito fino a diventare unico, irrepetibile e in alcuni casi anche indecifrabile. Ora, per puro diletto, qualche tempo fa con la mia compagna ci siamo inventati una sorta di gioco scherzoso che consiste nel classificare la diversa indole dei vari tipi di siciliano. Si tratta di isolare il carattere preminente di alcune persone (alcuni tipi si prestano in particolar modo) e di associarlo alle caratteristiche peculiari (utilizzando dei veri e propri stereotipi) del ceppo etnico da cui sembrano provenire. Premetto che non c’è niente di serio in tutto ciò e che non c’è qui nessun intento di schematizzazione o semplificazione del concetto di razza, di cultura o di religione.
Ad esempio, a chi di noi (noi negli -anta avanzati) non è capitato di avere avuto una nonna apprensiva all'inverosimile, costantemente imbevuta di pessimismo cosmico, percettrice di tragedia ad ogni lieve piegarsi della fortuna? Ecco, quello della tragedia è probabilmente un tratto da ascrivere ad un’indole di provenienza tutta greca: quando cioè il corso e ricorso delle avverse fortune dà adito a slanci di autocommiserazione e a un profondo senso di vittimismo. Chi più degli Antichi Greci possono spiegare questa tendenza? Proprio loro che, imbevuti di fatalismo, affidavano il loro destino al regolamento dei conti fra gli dei.
C'è poi un termine ormai in disuso che indicava una fiera lealtà, una forte determinazione e una rara dedizione verso un obiettivo. Ricordo che mia nonna per indicare qualcuno con queste caratteristiche amava dire: "beddu latinu". A parte a lei e a qualche sua comare, non credo di averlo mai sentito ripetere altrove. Espressione da ascrivere probabilmente allo stereotipo filtrato nel tempo (nonostante tutto questo tempo) dello specimen del guerriero romano o latino.
Chi non ha ricordi dei bei vecchi tempi in cui si usciva a grappoli di almeno venti persone? Bene, si ricorderà pure che in quelle compagnie c'era sempre il cascamorto di turno, quello cioè che ci provava con tutte, purché respirassero. Ecco, quello potrebbe essere un tratto identificabile con il francese angioino. Non è un mistero se la prima e unica rivoluzione popolare in Sicilia (che portò alla cacciata degli angioini) fu dovuta alle continue melliflue sguaiate avances che le nobildonne palermitane dovettero subire ad opera di quei simpatici lumaconi transalpini. Fin a quando cioè il Moustafà o il Mohammad che covava dentro all'indole dei palermitani sottomessi (la gelosia nei confronti delle proprie donne) non venne fuori con tutti gli attributi. Tratto arabo batte tratto francese 2 a 0 e palla al centro. Peraltro, anche il tratto della permalosità tipica del siculo potrebbe rientrare nello stereotipo dell’arabo. D’altra parte, dopo averci insegnato a dominare l’acqua, a governare i campi in agricoltura e a costruire magnifici archi a sesto acuto, qualche difetto potrebbero anche avercelo lasciato.
Gli opportunisti freddi e calcolatori, coloro che giocano di rapina che aspettano il momento per piazzare il loro colpo vincente, non possono poi che avere il volto e i tratti di un pirata turco saraceno. Si diceva altrove, su questo blog, di Mammaddrau e delle sue avventure siciliane.
La dominazione spagnola fu poi lunga e complicata e potrebbe aver lasciato delle tracce indelebili nell'indole di un certo tipo di siciliano. L’ampollosità barocca, una copiosa verbosità e una buona dose di pigrizia (dovuta forse all'abitudine alla siesta?). Tutti tratti che potrebbero essere stati amplificati durante il Regno borbonico delle due Sicilie la cui fortuna era strettamente collegata alla corona di Spagna.
E qui mi fermo, poiché forse per poter enucleare i tratti salienti del nuovo siculo/italiano nato dopo l’unificazione della Sicilia al resto della Penisola, non basterebbe un intero libro.
Ora per finire, mi capita (spesso) per lavoro di dover affrontare tavolate di allegri stranieri che, specie se per la prima volta sull'isola, si sentono allo stesso tempo spaesati, attratti e incuriositi dalla nostra cultura. Ad un certo punto della serata, movimentata, allegra e spesso chiassosa, innaffiata da calici di nettare degli dei, si può essere sicuri che, puntuale come la morte, arrivi la domanda che più di tutti gli stranieri si sognano di fare ad un siciliano (non per cattiveria) da prima che il loro aereo abbia lasciato la pista di decollo del loro paese: "ma allora, questa Mafia?...". Ripeto, non è cattiveria, quanto certamente curiosità per un mito trito e ritrito probabilmente alimentato sia dalla cinematografia, sia purtroppo dai fatti reali che hanno nel recente passato flagellato la storia della nostra isola. E come spiegare loro che invece la Sicilia è tante cose, con mille stratificazioni, infiniti percorsi e inimmaginabili tesori nascosti nelle pieghe del suo dialetto e nei dettagli (a volte inspiegabili) dei comportamenti delle sue gloriose genti.
Per altri versi, in tempi di globalizzazione, possiamo dire tranquillamente che ovunque nel mondo ci sia un matarazzo che cammina, si può essere certi che a due passi ci sarà sempre un palermitano pronto a ricordarglielo. E, ora che ci penso, anche il contrario: ovunque nel mondo ci sia un palermitano, ci sarà sempre un matarazzo che va camminando.
26 novembre 2020
Vicè
Sempre caro a me fu questo dialetto siculo...; Nun ci diri o carcarazzu ca è latru!
Mantrax
Bellissimo e divertentissimo !
Leo
"’inchia vuojjddiri… mancu un liccuni ci potti dari!"...da quel momento in cui ascoltammo quell'aneddoto il liccuni divenne per me e i miei amici, la pietra angolare della palermitaneità...GRAZIE!
Carmelo
Dimmi quannu ti levi stu matarazzu ri ncapo e ti dirò chi sei 😂 Come sempre è super piacevole leggerti, mio caro fratello ❤️
Carmelo
Dimmi quannu ti levi stu matarazzu ri ncapo e ti dirò chi sei😂 Sempre bello leggerti, mio caro fratello ❤️